L’abbandono

L’abbandono

Dicembre 1938 Sardegna

La città era avvolta da una notte gelida. Il vento salmastro proveniente dal mare si insinuava tra i vicoli, faceva tremare le insegne dei negozi chiusi, sollevava piccoli vortici di polvere sul selciato. Il silenzio era rotto solo dal ticchettio dei tacchi di Giulia, irregolare, a tratti accelerato. Camminava alternando passi rapidi a brevi corse. Ogni tanto si voltava. Il respiro affannoso si condensava in nuvole leggere davanti al viso.

Il cappotto rosso, troppo vistoso sotto la luce fioca dei lampioni, la faceva sentire esposta. Avvolse la sciarpa nera intorno alla testa, cercando di nascondere i capelli biondi. Non aveva alternative: doveva fuggire, e subito.

L’urgenza di andarsene le stringeva la gola. Se qualcuno l’avesse riconosciuta a quell’ora, tutto sarebbe finito. Sarebbe stata costretta a tornare indietro, e la suocera — con una soddisfazione appena dissimulata — l’avrebbe richiusa in casa, ignorando la debole opposizione del marito. Il pensiero la fece rabbrividire.

Arrivò davanti alla casa dell’ingegnere, l’unica persona che poteva ancora aiutarla. Si fermò un istante, il fiato corto, le mani tremanti. Bussò.

«Ingegnere, mi scusi l’ora, ma ho bisogno del suo aiuto.» La voce le uscì spezzata. «Devo partire subito per il continente. Ho avvertito mio padre con un telegramma, ma non ho il denaro per il biglietto. Mio padre glielo restituirà.»

L’uomo la osservò senza parlare. Aveva grosso un debito di riconoscenza verso il padre di Giulia, e lo sapeva. Dopo un attimo annuì. Le porse il denaro. «Non occorre che lo restituiate. Se volete, vi accompagno al porto.»

«No.» Giulia strinse le banconote. «Non voglio metterla nei guai.»

Uscì di nuovo nella notte. Al porto, la sirena della nave chiamava i passeggeri. Le luci sulla banchina erano nette, quasi rassicuranti. Il mare era scuro. Salì a bordo senza voltarsi.

Il viaggio fu lungo. Il mare di dicembre non concedeva tregua. Il rollio impediva il sonno. Ogni volta che chiudeva gli occhi, tornavano il volto della suocera, le frasi pronunciate con finta premura, le porte chiuse a chiave “per il suo bene”. E il marito, sempre un passo indietro.

All’alba del secondo giorno, quando la costa del continente emerse come una linea grigia, qualcosa si allentò. Non era gioia, ma la fine della paura più acuta.

Raggiunse la meta nel tardo pomeriggio. La casa di famiglia sorgeva poco fuori la piccola frazione di Terni, solida, ordinata, circondata da un giardino spoglio ma curato. Non era grande, ma dava un senso di sicurezza. La calda luce accesa nelle stanze annunciava calore umano.

Gli occhi azzurri di suo padre si illuminarono quando la videro e l’abbraccio fu breve, fermo e la fece entrare senza esitazioni. La madre arrivò poco dopo e le sorrise, mentre la sorella la guardò con un misto di rispetto e paura.

«Hai sbagliato a sposarti così in fretta, in chiesa in più, con un uomo tanto più vecchio di te, ma tu, testarda, hai voluto fare di testa tua» disse il padre più tardi, a tavola. «Te lo avevamo detto. La Sardegna è un mondo a sé.» Fece una pausa. «Ma la scelta fatta ora sembra quella che consideri giusta, anche se peserà su di noi e su te per molto tempo.»

Nei giorni successivi, Giulia parlò poco. Riprese i ritmi della casa: le colazioni puntuali, i pranzi, le passeggiate verso la città, le chiacchere con le amiche di infanzia, Terni appariva tranquilla, attraversata da una normalità che conviveva con bandiere, adunate, discorsi ufficiali.

Il padre non la incalzava. L’errore era stato riconosciuto e perdonato. La fuga anche.

Attendeva comunque e  trepidante un segno dall’altra sponda, ma non arrivò nulla. Poi da suo padre seppe solo che non ci sarebbero state conseguenze dato che due famiglie si erano accordate su una storia che mise a tacere tutte le chiacchere e le malignità che all’inizio avevano cominciato a girare.

Lavorò un poco come dattilografa e come insegnante all’asilo e entrò in un mondo diverso dove i documenti e le referenze erano importanti. Ogni firma le ricordava quanto fosse sottile il confine tra accettazione ed esclusione.

Quando arrivò il Natale, gli addobbi rallegrarono l’ambiente. Un abete vero, palle in vetro, il pranzo preparato secondo consuetudine. Anche se i venti di guerra erano vicinissimi, tutti se ne rendevano conto.

La sera della vigilia, Giulia uscì in giardino. L’aria era ferma e le stelle brillavano nel cielo invernale e ripensò al porto di Cagliari, alla notte della fuga e al rumore del mare. Capì che nulla si chiude davvero. Ci sono scelte che salvano, ma non mettono al riparo.

Rientrò, richiuse la porta e si sedette accanto ai suoi. In quella stanza tutto era come doveva essere. Fu proprio questa voglia di certezza a rivelarle il pericolo più grande, ossia non la scelta, ma l’illusione che potesse bastare.

Foto di Mirosław i Joanna Bucholc da Pixabay

Aprile 1998

La notizia arrivò con poche parole, dette in tono formale: «È morto, signora. Adesso è libera di sposarsi in chiesa, se vuole». Era quello che aveva sempre desiderato, in fondo. Il matrimonio in municipio, celebrato anni prima, non era mai stato sufficiente a cancellare del tutto la sensazione di vivere ai margini, in una posizione sospesa e precaria agli occhi delle  famiglie coinvolte, la sua e quella dell’uomo che aveva sposato e amato.

Il tempo aveva portato via quasi tutti, ma il silenzioso giudizio che si rifletteva nei gesti e negli sguardi era rimasto impresso in lei come una ferita gelida e costante. Ogni distinzione, ogni sottinteso, le pesava sulle spalle come una montagna di ghiaccio, un fardello che non aveva mai potuto scrollarsi di dosso.

Quando uscì dalla chiesa, i pensieri tornarono alla frase pronunciata da suo padre tanto tempo prima: «La scelta peserà per molto tempo su di noi e su di te». Ora che finalmente tutto sembrava essere andato al proprio posto, non poté fare a meno di sorridere amaramente. Era davvero tutto risolto, ma troppo tardi: il mondo, intorno a lei, era ormai cambiato radicalmente. E forse aveva contribuito anche lei.


Foto di Sabine van Erp da Pixabay

Questo racconto raccoglie dalla fine dell’Ottocento al Duemila, una storia familiare che attraversa il tempo seguendo il filo invisibile di tre donne. In un unico racconto, gesti e scelte quotidiane diventano il segno di una silenziosa rottura degli schemi imposti dal proprio tempo, trasformando la memoria privata in racconto universale. Senza mai porsi come manifesto, il racconto restituisce gesti, scelte e silenzi che, nel loro contesto storico, hanno rappresentato una rottura degli schemi imposti. Quindi la vicenda familiare diventa specchio dei cambiamenti sociali, mostrando come il coraggio di deviare dal tracciato previsto possa assumere forme diverse, intime e spesso non dichiarate, ma profondamente decisive.